Blog | 21 Giugno 2015 | Fabio Ciarla
Il vino dei Castelli Romani e il caso Omina Romana
Che i vini del Lazio, e in particolare dei Castelli Romani, non siano ormai da anni il simbolo della qualità è un dato di fatto. Che, tuttavia, ci siano più storie e più produttori al lavoro da anni per la rinascita del settore è altrettanto vero e dovuto è il ringraziamento a chi è rimasto a lavorare in vigna, pensando ad un futuro di qualità invece che ad un presente fatto di mezzi gradi zuccherini in più e di tonnellate di uve di nessun pregio.
Questa è la situazione, c’è in atto un cammino di ripresa e crescita fatto di piccoli produttori, qualche Consorzio lungimirante e scarso coordinamento regionale. Un contesto dunque in lento movimento, nel quale è esploso un “caso” che ha un nome latino, Omina Romana, e i colori della bandiera tedesca dell’imprenditore Anton Börner. La sfida è partita nel 2004 con l’acquisto di 80 ettari a Velletri e da qualche anno si è presentata al pubblico con la sua lista dei vini, produzioni quasi esclusivamente da vitigni internazionali e solo di altissima qualità, con prezzi che rappresentano qualcosa di mai visto nella zona. Una bottiglia di Chardonnay costa 24 euro sul sito dell’azienda, una cifra vicina a quanto possono sperare di ricevere i vignaioli di Velletri, magari dopo diversi mesi dalla vendemmia, per un quintale di uve bianche. Un paragone anomalo, lo so, ma utile per capire quale scossone può aver provocato l’arrivo di una squadra come quella messa in piedi da Börner (con lui l’agronoma Paula Pacheco e l’enologo Claudio Gori) a Velletri e in tutti i Castelli Romani.
Perché di questo mi interessa parlare ora, ovvero dell’utilità o inutilità del progetto per il territorio, al di là di ogni ragionamento su qualità, prezzi, scelte produttive ecc. ecc.. Tutte argomentazioni che comunque rientrano nella domanda alla quale sto cercando una risposta:
Omina Romana è un vantaggio, uno svantaggio o lascia indifferente il settore vino dei Castelli Romani?
Eliminiamo subito la terza scelta. Se si rimane indifferenti, magari con una malcelata superiorità o incomprensione per un investimento così importante, secondo me è perché si ha paura di confrontarsi. Significa in qualche modo aver paura di mettersi in gioco, sperando che… il terremoto non ci tocchi! Tutto sommato è un atteggiamento che comunque mi sembra piuttosto diffuso, quindi teniamolo a mente.
Vediamo perché si potrebbe avere invece una visione negativa del progetto di Anton Börner. Innanzitutto lo scarso legame con il territorio, la mancata valorizzazione di vitigni locali, il prezzo eccessivo e quell’aria da “meteora” arrivata da lontano ad insegnare la messa ai preti che ovviamente si porta dietro un’impresa come questa. A tutto ciò si aggiunge un concetto più ampio, rischioso, che insinua in molti un dubbio tipo: “se hai qualche milione di euro da spendere e i contatti giusti puoi fare un vino di alta qualità ovunque”.
I lati positivi sono diversi, a cominciare dai benefici di immagine che stanno arrivando a Velletri e al Lazio, ormai presenti in diversi contesti enologici internazionali come protagonisti. Per non parlare dell’investimento puramente economico, con i posti di lavoro creati, concludendo con la parte positiva del dubbio accennato poco sopra, ovvero un ragionamento del tipo: “ma allora ai Castelli Romani si possono davvero fare vini di alta qualità!”
Una panoramica abbastanza sintetica di quelli che ritengo i tre approcci principali al caso Omina Romana, sui quali dico la mia e apro la discussione. La mia opinione parte da un approccio liberale, ovvero che ognuno può decidere – con i propri soldi e seguendo le regole – di tentare l’impresa che preferisce. Detto questo di certo Omina Romana avrebbe potuto sposare meglio la causa territoriale, oltre alla analisi fatte dalle Università di Firenze e di Geisenheim sui vitigni più adatti per la situazione pedoclimatica forse si sarebbe dovuto osare qualcosa di meno razionale e più diplomatico, utile tra l’altro a rendere la sfida davvero completa. Si tratta in realtà di un punto importante, perché accertare che la zona è valida per produzioni di qualità ma solo se dedicata a vitigni internazionali può essere un’arma a doppio taglio, da una parte si può prendere a riferimento Cortona e il Syrah come esempio positivo, ma dall’altra si rischia di far finire nel dimenticatoio vitigni e tradizioni locali rimanendo un progetto senza anima.
L’aria di chi ne sa più degli altri pur provenendo da posti lontani sicuramente rimarrà attaccata a Omina Romana, ma porta con sé un elemento di rottura importante e fruttuoso per i Castelli Romani se saprà essere letto nel modo giusto. Insomma si tratta per la prima volta di una scelta autonoma, consapevole e senza vie di fuga a favore del territorio, quando molte grandi realtà fanno il passaggio inverso, andando – per esempio – a imbottigliare i vini prodotti nel Lazio in altre regioni. Un approccio che dovrebbe dare forza ai produttori locali, consapevoli che seguendo certe logiche i risultati possono arrivare. Certo, senza seguire pedissequamente quanto fatto da Börner ma con la certezza che un cammino di qualità alla fine può premiare anche il Lazio. In fondo la strada è stata aperta, appunto, da Omina Romana.
Insomma a ben guardare il pericolo maggiore che il territorio corre in questa vicenda è quello di passare in secondo piano. Ma questo non avverrà se i Castelli Romani affronteranno il terremoto Omina Romana come un’occasione di sviluppo piuttosto che con indifferenza o superficialità. È un processo già attuato in moltissimi casi, un esempio su tutti è quello del Sagrantino con Caprai a fare da apripista e poi decine di altri a sfruttarne la scia.
La mia l’ho detta, ora ditemi voi che ne pensate. Ho dimenticato qualche possibile approccio o piuttosto fatti importanti nell’analisi dell’azienda?
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