Rubriche | 19 Gennaio 2018 | Fabio Ciarla
Diritti di impianto, i Castelli Romani serbatoio per i professionisti delle intermediazioni
Ai Castelli Romani ormai le vigne vengono estirpate in cambio di un piatto di lenticchie. Fa male, malissimo, ma la realtà è questa e, forse, la Regione Lazio – in vista anche delle prossime elezioni – è bene che qualche domanda se la faccia. Chiariamo subito che la politica, in questo come in altri casi, ha responsabilità che affondano nei lustri precedenti, quindi non di attacco mirato si tratta quanto piuttosto di un campanello d’allarme per chi può fare qualcosa ora e chi dovrà farlo dopo il 4 marzo.
Tornando ai fatti, partiamo da alcuni cartelli appesi sulle strade e una comunicazione, trovata nella cassetta delle lettere di moltissimi agricoltori dei Castelli Romani (da Marino a Velletri per capirci), con un invito per un pomeriggio di “formazione” con tecniche studiate ma apparentemente da venditori di pentole. Ovvero questa:
Per inciso le affermazioni che più mi hanno lasciato esterrefatto sono: “SI MANGIA” (scritto grande) e “AVRETE DEI REGALI SCIOCCANTI…”. Insomma se sono queste le chiavi per incuriosire il vignaiolo medio dei Castelli Romani, e probabilmente lo sono a vedere la foto della sala durante l’incontro, allora siamo messi male, malissimo. Oltre al volantino c’era anche una lettera, questa:
Qui le parole sulle quali mi sono soffermato di più sono:
- redditività creativa della terra
- motivatore agricolo
- “signora bomboniera” a dir poco scioccante
Chiariamo subito anche un altro punto, non ho nulla contro la Marinotti & Partners (anzi le sto facendo anche un po’ di pubblicità immagino), che lavora in modo assolutamente legale e probabilmente anche facendo un favore a qualche sessantenne che non ce la fa più a mandare avanti il vigneto e, pur con la morte nel cuore, decide di estirparlo ricavandone cifre che – secondo le statistiche – variano tra gli 8 e i 10.000 euro. Tra l’altro, avendo saputo tardi dell’appuntamento, non ho potuto prendervi parte per toccare con mano tutti gli aspetti citati. Quindi nulla da dire sulla libera scelta di impresa, ma essendo nato e cresciuto nei Castelli Romani non posso rassegnarmi al fatto che il territorio diventi l’ennesimo serbatoio di vigneto per le altre regioni. Solo perché l’Europa (dove i nostri politici lavorano poco e male) ci impone limiti di crescita troppo rigidi e perché, a livello regionale, non si è stati capaci di offrire un’alternativa, un’idea di crescita e sviluppo per un settore che da sempre ha fatto economia, sociale e ambiente. Perché il problema al quale andiamo incontro riguarda tutti e tre questi aspetti.
Economico perché soppiantare il vigneto con nuove colture, dal fico al melograno, per la nostra area non è del tutto pensabile sia in termini tecnici sia di sviluppo futuro. Parliamo di colture comunque impegnative economicamente e di certo molto poco “sicure” quanto a mercato, in virtù di stili di consumo e mode (nonché di concorrenze estere) che fanno dormire sonni poco tranquilli.
Sociale perché il vino ha da sempre rappresentato l’anima di questo territorio, ne connotava l’offerta enogastronomica e soprattutto ne rappresentava l’argomento di unione e discussione. Eliminandolo perderemo cultura e legami, familiari e sociali.
Ambientale perché, e la cosa è già evidente, non vedere più vigne non significa – nella maggior parte dei casi – vedere nuove colture. Chi toglie la vigna solitamente lascia il terreno sodo, l’agricoltura è difficile tutta e il problema del reddito – per il quale il vigneto sarebbe oggi meno prezioso di altre produzioni – esula spesso dal prodotto nello specifico. I problemi di reddito spesso sono dovuti più alle dimensioni dell’appezzamento, alle difficoltà di accesso alla distribuzione e a logiche economiche generali. Che succede quindi? Che tolgo il vigneto per mettere pesche (ad esempio) e poi mi accorgo che i costi ci sono lo stesso, che i grossisti me le pagano meno di quanto valgono, che avrei bisogno di maggiori superfici per marginare qualche euro. E allora che faccio? Abbandono. Ecco, il rischio più grande è proprio quello dell’abbandono delle terre, non della sostituzione del vigneto con altre colture. Un azzardo che significa perdita di bellezza del paesaggio e aumento dei rischi idrogeologici in un colpo solo.
Lo “scandalo” del trasferimento dei diritti di impianto da una Regione all’altra, in teoria vietato dalla normativa, è scoppiato in questi giorni grazie ad un articolo di Giorgio Dell’Orefice su Il Sole 24 Ore dal titolo Tra i vigneti esplode il caso degli affitti “fittizi” (ma anche da Fabio Giavedoni su Slowine e Mimmo Pelagalli su AgroNotizie). Leggendolo capirete facilmente la tecnica di elusione del divieto, messa a punto a beneficio in particolare delle regioni i cui vini stanno spopolando in questo momento: Veneto e Friuli. E proprio il Veneto a quanto pare ha fatto saltare, nella conferenza Stato-Regioni, l’introduzione di una norma che legasse i diritti di impianto al terreno preso in affitto per 5 anni almeno prima di un eventuale trasferimento.
Personalmente sono da sempre per il libero mercato ma non amo la giungla, alcune regole devono esserci. O meglio il Veneto può decidere di puntare a rastrellare diritti d’impianto in ogni parte d’Italia perché, giustamente, al momento la sete di Prosecco nel mondo non sembra voler diminuire. Ma rivendico anche la necessità che la Regione Lazio, chiunque sia a dirigerla, cerchi di tutelare una delle sue produzioni agricole principali. Che si faccia cioè tutto il possibile per frenare questa emorragia di superficie vitata, siamo infatti a 18000 ettari totali circa, e ricordo che l’attuale assessore Hausmann un paio di anni fa disse che la soglia critica era intorno ai 15000, sotto questa cifra il Lazio sarebbe praticamente scomparso dalla carta vinicola nazionale per importanza. Mi pare che il rischio sia attuale, anche se l’ultima campagna di assegnazione dei nuovi diritti di impianto ha superato come richieste – anche se di poco – la quota assegnabile. Nel 2016 infatti il Lazio, insieme a Umbria e Piemonte (entrambe per motivazioni diverse), era una delle uniche tre regioni italiane ad aver richiesto nuovi diritti di impianto in quantità minore rispetto a quella alla quale poteva aspirare.
Il momento, l’ennesimo purtroppo, per fare una riflessione su “dove vuole andare il vino del Lazio” è arrivato. E non serve a nulla andare a cercare altrove le responsabilità, magari nelle richieste degli agricoltori veneti o nel lavoro della Marinotti & Partners – realtà che per diversi motivi portano avanti legittime aspirazioni -, serve piuttosto decidere di unirsi, di trovare un’alternativa al fallimento di tante cantine cooperative, sostenendo magari quelle che a fatica sono sopravvissute, e di programmare e incentivare a livello istituzionale un percorso di rinascita.
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